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mercoledì 14 settembre 2011

CELESTINA



Prima d’uscire i suoi occhi cercarono, attraverso la finestra della cucina, l’orto.
Quel fazzoletto di terra variopinta d’ortaggi, illuminato dalla luce calda e intensa di un pomeriggio di giugno, era il regno amato e governato, fino ad un mese prima, da Francesco, suo marito. Ogni dì lo innaffiava con cura garbata, strappava le erbacce, seguiva riconoscente la crescita dell’insalatina, raccoglieva un ciuffetto di prezzemolo, stava ammirato davanti alle gambe di sedano perché mai le aveva viste così carnose, non passava vicino ai pomodori senza far loro una raccomandazione. Quest’anno poi le melanzane tonde promettevano bene, accanto ai peperoni verdi ancora timidi e piccoli.
Gli occhi lucidi sostarono accanto ad ogni ortaggio, ogni angolo, ogni foglia e pareva dicesse loro “non datevi pena, torno presto”.
Loretta la sollecitò a chiudere tutte le finestre, aveva già messo la valigia in auto.
Con gesto solenne, Celestina girò la vecchia chiave della porta d’ingresso, l’estrasse delicatamente e stringendola forte la depose nel taschino della borsa di pelle nera, accanto al rosario e al santino di Padre Pio.
Non parlò, non sapeva di che cosa parlare durante il viaggio; invece Loretta spiegava alla mamma con un’insolita vivacità tutte le possibilità che avrebbe avuto presso Villa Ortensia.
Celestina pareva interessata, ma non l’ascoltava. Seguiva i pensieri disordinati che le ballavano dentro. Non aveva disdetto la tartaruga al latte che ogni giorno Oreste, il fornaio, le teneva da parte. Non aveva salutato Armida che l’avrebbe aspettata venerdì al cancello del cimitero per le preghiere di sufragio. E non s’era ricordata di restituire a Pina il chilo di farina prestatole per la torta di mele donata al mercatino missionario.
Che testa! La sua memoria perdeva visibilmente colpi e quando se n’accorgeva non lo confessava manco a se stessa.
Invidiava Leone, il gatto bigio che girava in contrada, perché non si dava cruccio di dimenticare, si risolveva nel presente. Lei invece stava sotto il gran carico del passato. S’impegnava sia a dimenticare al momento giusto, sia a ricordare al tempo giusto, perché aveva sempre creduto che nella vita ci volesse l’oblio, come per il suo orto ci voleva non solo luce, ma anche oscurità.
Intenta alla guida, Loretta illustrava il programma del suo prossimo viaggio in Giappone. Sapeva di parlare a se stessa. La mamma si guardava attorno senza vedere, assorta sicuramente nella triste consapevolezza che non sarebbe più ritornata a casa, anche se la figlia per giorni l’aveva rassicurata del contrario, per convincerla a partire.
Quella sera Celestina dormì, si fa per dire, nella stanza n. 8 di Villa Ortensia, dopo più di 60 anni dormiti nella sua casa.
Condivideva la camera con la signora Anita, che presentandosi le puntualizzò d’essere una professoressa in pensione del Liceo Mazzini e che attendeva dalla direzione una stanza singola con balcone. Poi le precisò che il mattino si poteva occupare il bagno per max 10 minuti e che non era permesso abusare con i profumi perché le procuravano nausea.
Celestina non proferì parola. Annuì con la testa, mentre ammirava i folti capelli biondi di Anita e con le mani lisciava il golfetto blu da lei lavorato a ferri.
Celestina era visibilmente disorientata, a momenti terribilmente confusa.
Onestamente, non aveva di che lamentarsi, le stanze erano belle e ordinate, le persone gentili, tutto buono e abbondante a pranzo e a cena. Però un velo di tristezza le avvolgeva gli occhi, le spalle, il cuore, poi giù le gambe e persino i piedi. Sì, sentiva i piedi tristi e sempre freddi, anche se aveva messo due paia di calze di lana.
Loretta al telefono insisteva perché le dicesse che lì si trovava proprio bene.
Anita le faceva compagnia e imperterrita le raccontava dei suoi molti viaggi e dei musei visitati in giro per il mondo.
Ai primi di giugno era al Palazzo Reale di Milano per una mostra d’arte del suo amato genio aragonese, che aveva interpretato con grazia e levità il mondo galante della Spagna settecentesca, fino a diventare il pittore ufficiale del re. Poi era cambiato, complice anche quella sordità che gli aveva procurato sia incubi, sia occhi nuovi per quella realtà fatta di soprusi, ignoranza e superstizione. Il dramma della quotidianità, derelitti ed emarginati, mostri e streghe, balli in maschera e decapitazioni, erano diventati poi i protagonisti delle opere di Francisco Goya.
Quante cose sapeva e, soprattutto, ricordava Anita!
E Celestina invece raccontò del suo Francesco e di quel quadro che aveva spesso carezzato stando in cucina. I suoi occhi venivano catturati, ammaliati, oltre la cornice della finestra, dal suo uomo immerso nei colori dell’orto. Una tela sempre diversa, sfumature nuove, sensazioni intense, emozionanti faccia a faccia con ritratti carichi d’umanità, silenziosa e vibrante sintonia. Poi Francesco era diventato quasi sordo e s’era fatto più riflessivo, le diceva che così non sentiva la cattiveria delle persone, ma poteva apprezzarne la bontà.
Era la prima volta che poteva dire del suo Francesco. Grosse lacrime le spensero la voce.
Anita l’abbracciò e si ritrovarono a piangere insieme, poi a ridere insieme.
Ridevano come due bimbe davanti ad un gioco nuovo, quando entrò la direttrice per comunicare ad Anita che era pronta la sua stanza singola.
Senza esitare lei la liquidò : “Signora ne riparleremo nei prossimi mesi.”
Una sera Celestina liberamente accennò anche il suo problema. La memoria aveva tenuto insieme la sua vita, che di per sé non era poca, l’aveva tenuta anche ordinata. Ora si rendeva conto che la memoria non conservava, né immagazzinava, solo evidenziava pochi tratti. Come una matita sottolineava alcuni avvenimenti e persone che l’avevano fatta essere quella che era.
Il passato era una stella che non esisteva più e in lontananza scorgeva appena i sogni rimandati, senza luce, né calore, che sopravvivevano come fantasmi. Doveva accettare di dimenticare per poter proseguire il viaggio della vita.
Un sospiro prolungato e poi un semplice silenzio di pace. Incontrando gli occhi di Anita, in profondo ascolto, le confidò che se avesse registrato gli sbagli suoi e degli altri in una memoria indelebile, non avrebbe mai perdonato.
Quella notte riposarono bene.
Per una prossima uscita Anita propose la visita ad una collezione privata di un pittore contemporaneo, poco conosciuto. In particolare, non aveva mai visto un quadro che, si diceva, straordinario e suggestivo nelle pennellate e nei colori. Colori composti a parlare di bellezza e benessere, apparivano sempre nuovi ed emozionanti agli occhi dei visitatori.
Celestina era radiosa all’idea d’accompagnarla, era come andare ad un ricevimento reale. La responsabile di Villa Ortensia acconsentì per la 3^ domenica di luglio.
Partirono in taxi, vestite da festa, al settimo cielo come due ragazzine. Celestina tentava di riconoscere qualche dettaglio lungo la strada, ma niente era familiare, allora si avvicinò un po’ all’amica, sul sedile. Quando l’auto rallentò vicino al capitello di S. Antonio, in testa alla sua via, s’illuminò. Non ci credeva…..Voleva dire che …. Voleva sapere…….., ma il cuore era gonfio di commozione.
Scese dall’auto, Anita la prese per mano e le sussurrò: “Celestina, la chiave è nel taschino della borsetta”.